Paolo Zolli, Don Siro Cisilino (1903-1987) e la messa “tridentina” a Venezia

 

Il dramma dei cattolici «tradizionalisti» è scandito da due date, il 7 marzo 1965, quando in Italia fu brutalmente imposta la celebrazione della messa in italiano, e la prima domenica d’Avvento del 1969, quando entrò in vigore il messale riformato di Paolo VI. Il secondo avvenimento fu intrinsecamente più grave, in quanto al testo perfettamente ortodosso del messale tridentino ne veniva affiancato – con un affiancamento che intendeva essere, e di fatto fu, una sostituzione – uno che rappresentava «sia nel suo insieme come nei particolari un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della santa messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino» (card. A. Ottaviani e A. Bacci).

Nella realtà dei fatti la sostituzione non fu però percepita immediatamente e nella sua drammaticità dalla maggior parte dei fedeli, che da quattro anni assistevano a continui cambiamenti e stravolgimenti di un rito che doveva essere per sua natura immutabile. Il piano era stato architettato bene: il primo scossone, quello della traduzione del messale nel 1965, intrinsecamente meno grave, doveva fare in modo che i fedeli non si accorgessero del secondo, cioè della sostituzione del rito.

In quegli anni io non conoscevo se non di vista, avendolo notato alla Fondazione Cini o nelle sale riservate della Biblioteca Marciana di Venezia, don Siro Cisilino, e quindi non saprei dire in che modo egli abbia reagito ai due distinti momenti della sovversione liturgica. So solo, per averlo appreso più tardi che, con spirito che oggi si direbbe “profetico”, la sovversione egli l’aveva intuita da molto tempo. La quasi totalità dei tradizionalisti ha infatti preso coscienza della crisi della liturgia quando essa è scoppiata, cioè in Italia il 7 marzo 1965 e altrove pressappoco nello stesso periodo – ed è allora che incominciano a costituirsi i primi nuclei di resistenza e i movimenti in difesa della liturgia tradizionale -, ma don Siro il vento infido lo aveva fiutato da tempo, cioè dagli anni delle riforme di Pio XII, riforme limitate a pochi aspetti e a pochi, ma significativi, momenti, quali ad esempio il rito della Settimana Santa; riforme che potevano far presagire – e don Siro lo comprese subito – che si sarebbe aperto un varco all’ondata che nel giro di una quindicina d’anni avrebbe sommerso secoli di pietà, di devozione, di fede. Recentemente tutto ciò è stato messo in rilievo dalla pubblicistica tradizionalista e la cosa può avere stupito molti, ma non avrebbe certamente stupito don Cisilino. Don Siro infatti comprese immediatamente a cosa avrebbero portato le progressive novità: dalla sostituzione dell’antichissima festività dei santi Filippo e Giacomo con la sconcertante celebrazione di san Giuseppe artigiano il 1° maggio, alla riforma della settimana santa. Queste cose vanno ricordate non a titolo di aneddoto e curiosità, ma per far comprendere quanto profonda fosse la coerenza di questa splendida figura di sacerdote cattolico, scomparso il 4 marzo 1987.

La battaglia doveva però diventare drammatica quando le disposizioni della Santa Sede e della Conferenza episcopale italiana, in violazione patente di quanto previsto dalla bolla Quo primum di san Pio V e in contrasto persino con la costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II, prima imponevano la traduzione in volgare di tutta la messa (il Concilio su questo punto proponeva concessioni ben più limitate), poi tentavano di rendere obbligatoria la nuova messa. Non posso in questa sede diffondermi sull’argomento, ma credo che sia necessario iniziare sin d’ora a raccogliere i materiali per un futuro martirologio di quel clero cattolico che intendeva rimanere fedele all’antica liturgia ed è per questo divenuto oggetto di indebite pressioni e di persecuzioni che rimarranno a perpetua vergogna di chi le ha perpetrate. Don Siro resistette a ogni lusinga e a ogni minaccia. Non una sola volta, dico non una sola volta, egli celebrò la messa riformata (né prima la messa in italiano).

A partire dal 1965 la vita di don Siro non fu tranquilla: dovette lasciare la chiesa dove aveva celebrato sino allora e celebrare «fuori orario». L’«affare» Lefebvre, scoppiato nel 1976, e col quale don Siro non aveva nulla a che vedere, spinse a maggior cautela (quante cautele nei confronti dei tradizionalisti in un mondo cattolico che assiste imperturbabile a messe scismatiche, buffonesche, vergognose e ingiuriose verso Dio!) i frati che fino ad allora gli avevano dato ospitalità (ospitalità per celebrare, intendo) e don Siro trovò accoglienza presso i benedettini dell’Isola di San Giorgio, dove poteva officiare nella cappella dei Morti, un’accoglienza discreta e cortese, di cui è doveroso dare atto agli ospitanti. L’«affare» Lefebvre aveva però servito a muovere le acque, i tradizionalisti, anche quelli che intendevano mantenere la loro autonomia nei confronti del vescovo francese, incominciarono a contarsi, incominciarono a rendersi conto che non erano isolati. Amici con i quali due anni prima avevo combattuto la santa battaglia contro la legge sul divorzio mi fecero sapere che ogni domenica (e naturalmente anche gli altri giorni) a San Giorgio si celebrava una messa «buona». Il 10 ottobre 1976, io che già solevo andare ad assistere lì alla messa dei benedettini, che aveva il torto di essere celebrata col rito paolino, ma aveva almeno il pregio di essere cantata in latino e gregoriano, andai alla messa di don Siro; nel mio sempre stringatissimo «diario» a quella data trovo: «Stamani sono andato alle 9½ a S. Giorgio alla messa di don Siro Cisilino, celebrata secondo il rito di san Pio Quinto».

Si andò avanti così per circa un anno. Il 24 luglio 1977 festeggiammo il cinquantenario di sacerdozio di don Siro, festa molto modesta, da frequentatori di catacombe, ma il maestro Carlo Durighello – col quale mi aveva messo in contatto l’associazione Una Voce -, da me informato dell’avvenimento, per l’occasione volle venire a suonare l’armonium. Per una di quelle circostanze nelle quali sarebbe difficile non vedere la mano della Provvidenza, Carlo Durighello aveva avuto in concessione dalla Curia per esecuzioni musicali proprio quella chiesa di S. Simon piccolo, ormai chiusa al culto, nella quale don Siro aveva celebrato per anni, prima della riforma. Nei mesi successivi Carlo Durighello convinse don Siro a riprendere a celebrare a S. Simon piccolo. So che negli ambienti della Curia veneziana è viva la convinzione – in sé non assurda – che Durighello avesse chiesto la chiesa di S. Simon col pretesto di concerti per poi riaprirla al culto tradizionale, ma in realtà posso assicurare che ciò che avvenne in seguito fu casuale, o meglio fu provvidenziale, ma non era stato premeditato, e che tutto avvenne perché pochi giorni prima del cinquantenario di sacerdozio di don Siro io incontrai casualmente per strada il Durighello e lo informai del fatto. Poi da cosa nacque cosa: le vie della Provvidenza sono infinite. Non saprei dire se già nell’agosto del 1977 avvenne una celebrazione in S. Simon, posso dire solo che si era discusso a lungo se lasciare il nido scomodo ma sicuro di San Giorgio per la nuova e incerta sede, ma posso aggiungere che nel mio diario in data 13 novembre 1977 trovo ancora la messa a S. Giorgio, mentre in data 20 novembre trovo la messa a S. Simon, in concomitanza con la riunione annuale del Consiglio nazionale dell’associazione Una Voce (cfr. «Una Voce Notiziario», 40-41, 1977, pp. 22-23). Poco dopo si riprendeva l’uso dei vespri.

Qualche mese più tardi scoppiava la bufera. Una lettera del card. Albino Luciani del 20 febbraio 1978 proibiva «a qualsiasi titolo la celebrazione della messa more antiquo nella chiesa di S. Simeone Piccolo, come in tutto il territorio della diocesi» e (grande concessione!) si lasciava a don Siro «la facoltà di celebrare la santa messa more antiquo solo in casa propria». Che la celebrazione di messe in genere potesse essere esclusa a S. Simon era anche comprensibile, trattandosi di chiesa chiusa al culto e adibita ad altri scopi, assurda era la pretesa di escludere la messa more antiquo e soprattutto di escluderla «in tutto il territorio della diocesi», in quanto ciò contrastava con i diritti protetti dalla bolla Quo primum. Lo stesso card. Luciani si accorse di aver passato il segno, tant’è vero che nella «Rivista diocesana del Patriarcato di Venezia», aprile-maggio 1978, p. 167, una nota della Curia, ritornando sull’argomento, ricordava: «Il Patriarca ha di recente proibito che si celebri a S. Simon piccolo – divenuta, con proteste del parroco, del vicario, di altri fedeli rendez-vous reclamizzato del Movimento Una Voce – la cosiddetta messa di san Pio X». A parte la finezza del rendez-vous, va notato che il riferimento a «tutto il territorio della diocesi» era qui caduto. Chi volesse ricostruire tutti i particolari della penosa vicenda può andare a rileggere la cronaca L’inutile persecuzione, pubblicata in «Una Voce Notiziario», 42-43, 1978, pp. 14-19, e ripubblicata da Carlo Belli, Altare deserto, Roma, G. Volpe, 1983, pp. 75-88). Qui basterà ricordare che don Siro, tra alterne vicende, riprese a celebrare a S. Giorgio.

La scomparsa di Paolo VI, nel luglio successivo, il breve pontificato di Albino Luciani, la sede doppiamente vacante a Roma e a Venezia, permisero di fatto che si riprendesse la celebrazione a S. Simon. Il fatto di maggior rilievo negli anni successivi fu la celebrazione in quella chiesa di mons. Lefebvre, il 7 aprile 1980, e la cronaca ne è affidata alla stampa di quei giorni.

Gli anni successivi videro la scomparsa di Carlo Durighello, con conseguenti problemi per la conservazione della chiesa, ma le celebrazioni continuarono regolarmente. Il 2 settembre 1984, al ritorno dalle vacanze, trovai don Siro rapidamente invecchiato: l’età ormai avanzante, le dure battaglie combattute per venti difficilissimi anni, avevano minato la sua forte fibra. Poco dopo egli ritornava nel suo Friuli, dove si spegneva, come abbiamo detto il 4 marzo 1987. E qui si dovette assistere all’ultimo oltraggio, all’ultima vergogna. Il vescovo di Udine, famoso per lasciar celebrare messe in friulano, che stanno a significare una precisa volontà di rottura con Roma, non volle rispettare la volontà e il desiderio del vecchio sacerdote che con la sua fede e la sua cultura aveva costituito uno dei vanti del Friuli cattolico. Avvertito da me telefonicamente e dall’amico Paolo Naccari con telegramma sulla volontà di don Siro di veder celebrati i propri funerali col rito tradizionale o altrimenti con la semplice benedizione e senza messa, mons. Alfredo Battisti non ha esitato a procedere a una celebrazione «paolina», confusa, un po’ in italiano e un po’ in latino, col solito altare rovesciato, in cui la concelebrazione, da don Siro detestatissima, contribuiva a creare ulteriore sconcerto.

E così per ultima messa don Siro Cisilino ha avuto quella di Paolo VI, apprezzata dai fratelli ecumenici di Taizé ma a lui non gradita (1). Ciò ha costituito una gratuita violazione delle ultime volontà di don Siro, un’umiliazione e un dolore per noi, suoi amici, suoi estimatori, suoi compagni nella santa battaglia; quanto al nostro amico, don Siro, tutto ciò non poteva più toccarlo, ormai assunto, lo confidiamo, nella gloria dei cieli, a contemplare la gloria di Dio tra le melodie degli angeli e degli arcangeli, dei cherubini e dei serafini, qui non cessant clamare quotidie una voce dicentes: Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.

Paolo Zolli

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(1) A cura delle sezioni di Una Voce di Udine e Venezia, sante messe «tridentine» sono poi state solennemente celebrate in suffragio dell’anima di don Siro Cisilino nel giorno del trigesimo, l’una a Pantianicco ove risiedeva, l’altra a Venezia in quella stessa chiesa di S. Simon nella quale per tanti anni aveva celebrato la santa messa.

 

Cfr. «Una Voce Notiziario», 79-80, 1987, pp. 8-11, ripubblicato ivi, 76-79 ns, 2020, pp. 29-32.

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