[Renato Pozzi] La Costituzione apostolica «Quo primum tempore» di san Pio V

Quest’anno ricorre il IV centenario della morte di san Pio V, Sommo Pontefice dal 7.I.1566 al 1.V.1572. Eletto «praeter omnium expectationem» – cioè, per divina ispirazione e senza mistura di umane considerazioni, come sembra di dover dedurre dalla sua vita di prima e di dopo la sua elevazione al Pontificato – egli portò sul Soglio pontificio la virtù, lo spirito di orazione, la dottrina e lo zelo di un degno figlio di San Domenico. Temprato attraverso un lungo tirocinio di importanti mansioni, ricoperte sia in seno all’Ordine che nei più alti gradi della Gerarchia ecclesiastica (successivamente, Maestro di Filosofia e Teologia, Predicatore, Inquisitore, Vescovo e Cardinale di Curia), con volontà indomita anch’egli «ne li sterpi eretici percosse / l’impeto suo, più vivamente quivi / dove le resistenze eran più grosse» (Par., XII, 100-2). Non fa dunque meraviglia che, provenendo da una Famiglia cui era vocazione e dovere di essere un’accolta intrepida di «pugiles Fidei et vera mundi lumina», giunto al vertice del ministero Apostolico, come ne conservò il bianco abito, così non ne deponesse lo spirito e l’ardore nel combattere contro i nemici interni ed esterni della Chiesa: l’Eresia dissolvitrice, l’Infedeltà sterminatrice. Lepanto fu opera eminentemente sua, e fu, sotto il Gonfalone di S. R. Chiesa, vittoria della Fede e della Civiltà. Ma a Lui si deve soprattutto se il Concilio di Trento, dopo il lungo travaglio di interruzioni, di opposizioni, di tentennamenti, è riuscita a trovare la retta e certa via di applicazioni ferme e costanti, inaugurando quella Controriforma che, piaccia o non piaccia, ha preparato il periodo forse più fulgido di tutta la storia della Chiesa. L’eresia non si cura, si taglia. E così fece san Pio V. La sua mano parve rude, e le cesoie impietose. Ma che altro poteva fare il santo Pontefice, se il Padrone della Vigna gli chiedeva di purgarla dagli sterpi? «Quod iustum erat – dice di lui il Breviario – apostolica libertate et constantia decernebat». Era un Santo, e i Santi non piegano «neque in dexteram neque in sinistram partem», perché, essendo di Dio, seguono lui solo, che ne fa eletti strumenti della sua Provvidenza. Così dunque sintetizza la lezione del Breviario gli atti del Pontificato di san Pio V e il suo buon governo: «Fuit in eo religionis propagandae perpetuum studium, in ecclesiastica vita restituenda idefessus labor, in extirpandis erroribus assidua vigilantia, in sublevandis egentium necessitatibus indeficiens beneficientia, in sedis Apostolicae iuribus vindicandis robur invictum». E per far tutto questo non perdette un momento, tra il suo continuo pregare, far penitenza e soffrire, dei 6 anni, 3 mesi e 24 giorni di un Regno che fu troppo breve ma fecondissimo.

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Alla Cost. Apostolica «Quo primum tempore», promulgata il 19 Luglio del 1570 – di cui riportiamo il testo latino con a fianco una nostra traduzione opportunamente divisa in vari articoli secondo il contenuto1 – premettiamo qui soltanto alcune osservazioni generali atte a farne comprendere il significato e la forza normativa:

a) Il documento è stato concepito nella più fedele e stretta osservanza delle indicazioni e voti formulati in seno al Concilio di Trento, il quale, pur avendo trattato e discusso della necessaria riforma del breviario e del messale, non ha potuto attuare le conclusioni proposte da una speciale commissione di Padri costituita allo scopo. Per quanto riguarda la riforma del messale il Concilio aveva stabilito che «il Sacrificio sia compiuto secondo lo stesso rito ovunque e da tutti, affinché la Chiesa di Dio non abbia che un solo linguaggio (unius labii sint), e non si noti tra noi la più leggera differenza (dissensio). E perché ciò possa ottenersi, sarà forse bene attenersi al seguente criterio: che tutti i messali, dopo essere stati purgati da preghiere apocrife e superstiziose, vengano a tutti proposti perfettamente puri e senza difetti (integra); siano essi identici, almeno per quanto riguarda il clero secolare, restando salvi gli usi legittimamente acquisiti e non abusivi nelle diverse regioni». Per quanto riguarda la pratica esecuzione della riforma, veniva espressamente previsto: «che i messali siano rivisti ed emendati in conformità all’antico uso e costume della Santa Chiesa Romana» (Atti d. C. d. Tr. Ed. Goerresgesell., t. VIII, pp. 916-17, 921). Umberto Jedin, acuto e benemerito storico del Concilio di Trento, nel mettere in risalto l’opera unitaria dogmatico-dottrinale e la «restitutio» liturgica operata in conformità con i decreti del Concilio da san Pio V, scrive: «I decreti dogmatici del Tridentino e la conseguente professione di fede tridentina, hanno ricostituito quella certezza e sicurezza nelle cose di fede che avea fatto difetto da così lungo tempo, fornendo una sicura base all’indagine teologica. Il Messale e il Breviario di Pio V hanno unificato la Liturgia, e questa unificazione non fu il prodotto del centralismo romano, ma è avvenuta per espresso desiderio dei Padri del Concilio di Trento» (Kirchengeschichte und Kirchenkrise, Wien 1971).

b) Il testo della «Quo primum» è giuridicamente irreprensibile e quanto mai preciso nell’enunciazione dei precetti legislativi. Il metodo è quello dell’affermazione del «iussum» e della negazione del suo contrario, onde non lasciare dubbi sulla volontà del legislatore, e impedire eccezioni o interpretazioni estensive o di comodo. L’aggiunta di sanzioni perfeziona l’impero della legge e ne aiuta l’osservanza. Si dirà che pecca di «giuridicismo», perché esprime chiaramente quello che vuole? A una buona legge non si domanda che di essere certa, univoca e chiara. Gli antichi Romani, che sapevano il fatto loro, dicevano della legge che essa è «res surda, inexorabilis», cioè, che non può essere pregata, cioè piegata al comodo e al capriccio di ciascuno.

c) La bolla «Quo primum» non è una legge astratta, nata dal cervello cogitante di un legislatore in cerca di riforme, ma imposta dalla realtà delle cose, cioè dallo stato di confusione e di abuso che il particolarismo giuridico aveva da vario tempo introdotto nella preghiera ufficiale della Chiesa. Ma in quest’opera di restaurazione e purificazione il Pontefice non ha proceduto con un rigore preconcetto e pianificatore. Adottando il principio della consuetudine «optima legum interpres», volle salvi quei Riti che potevano vantare un uso ininterrotto di almeno duecento anni. Fu così che all’indeclinabile esigenza di norme precise e ferme non è mancato il giusto temperamento dell’«aequitas canonica». Ci si potrà chiedere perché san Pio V ha richiesto l’uso bicentenario e non un tempo minore, per es., una consuetudine semplicemente centenaria. Non v’è dubbio che nella statuizione di duecento anni come tempo minimo della «antiquitas» dell’uso ininterrotto, san Pio V è stato mosso dalla preoccupazione di escludere la sopravvivenza di riti liturgici eventualmente ispirati o contaminati dall’eresia di quei movimenti riformatori che hanno pullulato in Europa fin dal secolo XIV, sfociando nelle varie specie e sottospecie del Protestantesimo. Anche qui, dunque, la sollecitudine di salvaguardare nella sua integrità il principio della mutua relazione tra fede e preghiera: «Lex orandi, lex credendi».

d) La legislazione liturgica di san Pio V ha presieduto alla celebrazione dei divini misteri per quattro secoli, con sommo beneficio della Religione cattolica, la quale, mediante la purezza, l’integrità e l’unità del Rito, non solo ha garantito nel suo interno una infrangibile saldezza dottrinale e disciplinare, ma, proprio per questo, ha potuto svolgere all’esterno una attività di conquista missionaria quale mai essa aveva conosciuto dai tempi di San Gregorio Magno. Infatti, il rito canonizzato da san Pio V ha accompagnato e sanzionato il continuo progresso del Cattolicesimo in tutte le parti della terra, dovunque esso ha potuto erigere un altare per immolarvi l’«oblatio munda» annunziata dal profeta Malachia. Questo è stato l’ecumenismo che san Pio V ha inaugurato e che per quattro secoli il Pontificato Romano ha continuato con tanto successo nella più assoluta fedeltà alla Messa che l’età apostolica aveva legata alla Chiesa di Roma per l’eternità. Ed ora, se vi regge l’animo, confrontategli le rovine di questi dieci anni di ecumenismo postconciliare.

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1Vedi link [NdR]

 

Cfr. «Una Voce Notiziario», 11-12, 1972, pp. 1-3, ora ivi, 76-79 ns, 2020, pp. 13-14.

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