SABATO DEI QUATTRO TEMPI D’AVVENTO Stazione a San Pietro.

S. Pietro in Vaticano

Da principio, le ordinazioni dei sacri ministri in Roma non si celebravano che nel mese di dicembre; quando cioè la famiglia cristiana, all’appressarsi della solennità del Natale, con un solenne triduano digiuno offriva a Dio quasi una libazione dei frutti raccolti nella stagione, e profittava di quest’occasione per implorare i suoi carismi sopra coloro che lo Spirito Santo aveva designato a continuare l’opera degli Apostoli, nel governo del gregge di Gesù Cristo. Le ordinazioni dei sacri leviti si celebravano di regola presso la tomba di san Pietro. Siccome però ci si teneva a far rilevare che, sebbene tutti i membri del clero facciano capo all’Apostolo, da cui essi derivano, come da sorgente vitale, la loro podestà, tuttavia il solo Papa eredita da lui la pienezza della podestà pontificia ed il primato universale sulla Chiesa, perciò nel secolo XII solo la consacrazione pontificia si compieva regolarmente sull’altare che sovrasta l’avello dell’Apostolo, mentre le altre venivano per solito celebrate nella attigua rotonda di sant’Andrea o nell’oratorio di san Martino. Altra volta questo sabato in Roma era aliturgico, come il sabato santo e gli altri sabati dei IV Tempi; il che importava che il digiuno, iniziato dopo la cena del venerdì a sera, si protraesse sino all’aurora della domenica successiva, al termine della messa vigiliare che si recitava nella basilica vaticana.

In quei primi tempi di cui trattiamo, dominava ancora l’originario concetto dell’agape convivale intimamente associata alla celebrazione del Sacramento Eucaristico. Il digiuno ecclesiastico escludeva perciò eziandio la messa, la quale sin dai tempi di Tertulliano segnava invece il termine dell’astinenza. Era quindi ben naturale che, dovendosi celebrare le sacre ordinazioni durante la vigilia domenicale a san Pietro, il popolo si astenesse dal cibo per tutto il giorno precedente, e quindi il sabato non avesse messa.

Negli antichi Sacramentari i sabati dei IV Tempi prendono spesso il nome di sabati dalle dodici lezioni, e l’origine è questa. Da principio in Roma, e ne seguivano l’esempio molte altre Chiese occidentali, si digiunava tre di la settimana, cioè il mercoledì, il venerdì e il sabato, e nella notte precedente la domenica si celebravano le vigilie notturne in preparazione del sacrificio domenicale. Ecco la forma primitiva della santificazione della settimana cristiana, a confronto della farisaica, che importava solo un duplice digiuno, il lunedì e il giovedì. Questa rigida disciplina evangelica col tempo si rilasciò, e quello che prima era il consueto rito del ciclo ebdomadario, nel IV secolo finì per divenire la esclusiva caratteristica d’alcune settimane speciali, in occasione cioè dei tre solenni digiuni dei mesi di giugno, di settembre e di dicembre, contrapposti alle ferie latine della mietitura, della vendemmia e della svinatura.

Il tipo dell’antica vigilia romana ci è stato sufficientemente conservato nel Messale Romano nella prima parte della cerimonia che precede ora la benedizione del fonte battesimale il sabato santo. Questo tipo arcaico originariamente deriva dall’uso delle sinagoghe della diaspora, ove in ciascun sabato il popolo alternava il canto responsoriale dei salmi alle letture di determinate pericopi scritturali, commentate dai Rabbi. Dato che Paolo, Barnaba, Sila e gli altri frequentavano le adunanze sabbatiche nelle sinagoghe, le sinassi cristiane potevano incominciare solo al tramonto del sole, dopo compiuto il servizio liturgico dei figli d’Israele. Quando i trepidi seguaci del Vangelo si raccoglievano circa domos ad frangendum panem, già spuntava Venere in cielo, e la funzione dovendosi protrarre tutta la notte, incominciava colla poetica cerimonia del lucernario, onde dedicare alla luce increata la tremula fiammella che doveva diradare le tenebre della Sacra veglia. Essa era il vero simbolo della nascente Chiesa.

Assai prima che i monaci trapiantassero dall’Egitto e introducessero nella liturgia basilicale romana il tipo della vigilia salmodica in uso in quei cenobi, la veglia della Chiesa di Roma importava tutto un intreccio di dodici lezioni ripetute in latino e in greco, in grazia della popolazione promiscua dell’eterna città, e alternate dal canto responsoriale delle famose Odi mattutinali e dalle collette del sacerdote. Forse da principio le lezioni, come eziandio in Oriente, venivano successivamente commentate al popolo dai presbiteri o dal Papa; ma verso il V secolo tutta la spiegazione era contenuta nella colletta pronunziata dal presidente dell’assemblea. Alla fine di ciascun brano di lettura il diacono invitava il popolo alla preghiera: Flectamus genua, e l’adunanza si prostrava al suolo, meditando su quanto aveva udito leggere. Levate, intimava dopo pochi istanti il levita, e tutti sorgevano allargando le braccia in ‘forma di croce in atto di preghiera. Allora il sacerdote a nome di tutti recitava la breve prece pur oggi descritta nel Messale, la quale in tanto si chiamava colletta, perché riassumeva i voti particolari di ciascun fedele, e così riuniti li presentava al trono del Signore. Al termine delle vigilie, in sullo spuntare dell’alba, il cantico dei tre giovanetti di Babilonia, detto comunemente Benedictiones, poneva termine alla salmodia, e serviva come canto di passaggio tra l’ufficiatura vigiliare e l’offerta del Sacrificio Eucaristico. Prima però d’arrecare i sacri doni all’altare, si compiva l’ordinazione dei nuovi ministri. Lo schema del rito era identico pei vescovi, pei preti e pei diaconi. Una breve colletta di preparazione, quindi il canto della prece eucaristica di consacrazione (prefazio) accompagnata dall’imposizione delle mani. Non v’erano da principio né consegna di strumenti, né unzioni, né vestizioni, introdotte più tardi sotto l’influenza gallicana; l’anafora consacratoria si muoveva sull’identico ritmo di quella della messa, di cui l’ordinazione costituiva come un breve preludio e una parte reparatoria. In quei tempi aurei per la sacra liturgia, l’Eucaristia era il vero punto centrale del culto cattolico: essa incorniciava ogni altro
atto cultuale. Era in vista della sua consacrazione che si ordinavano i nuovi ministri; onde era ben giusto che questo rito formasse la parte preliminare dell’anafora stessa. Ed è per questo che i più antichi documenti liturgici ci riferiscono il testo dell’anafora eucaristica appunto quando vengono a trattare delle ordinazioni dei nuovi sacerdoti. “Quando voi avrete eletto alcuno alla dignità di vescovo o di presbitero, recitate su di lui la prece di consacrazione; quindi, ricevuto che egli avrà dal popolo il bacio di pace, il diacono gli presenti il pane ed il vino, ed il nuovo sacerdote reciti su di questi elementi l’anafora d’oblazione”. Così generalmente nei canoni d’Ippolito e nei più antichi testi superstiti di diritto Ecclesiastico.

Oggi il rito prescritto dal Pontificale Romano per le sacre ordinazioni, è molto più complesso. La mentalità giuridica franca colle sue distinzioni tra il diritto e l’investitura per l’attuale esercizio di questo diritto, ha introdotto nel cerimoniale di Roma tale un complesso di doppioni di preghiere di ricambio, di consegne di strumenti, di vestizioni, d’unzioni coll’olio dei catecumeni, col crisma, che talora i teologi scolastici hanno finito per non raccapezzarvicisi più nella ricerca della materia e della forma essenziale del sacramento dell’Ordine. Convien dire che Roma assai di mal animo e solo alla fine del medio evo si acconciò a quest’intrecci di cerimonie; nei lunghi secoli dell’età di mezzo ella, come attestano gli Ordines Romani, ha conservato intatte le sue originarie anafore per l’ordinazione dei sacri ministri, e queste, poste a confronto con quelle che troviamo recensite nei più antichi documenti liturgici del patriarcato d’Alessandria e d’Antiochia, i Canoni così detti d’Ippolito, l’ordinamento Ecclesiastico degli Egiziani, la Didascalia degli Apostoli, le Costituzioni Apostoliche, il Testamento del Signore ecc., risultano loro strettamente affini, e derivanti da una primigenia comune fonte ispiratrice.

Non essendo qui il luogo di riferire per intero le formole romane per la consacrazione dei sacri ministri, le riassumeremo brevemente.

Premessa una breve colletta di introduzione, che a titolo d’onore precede sempre in antico così le anafore eucaristiche che l’orazione domenicale, la prece per la consacrazione dei vescovi e del Papa stesso, esprimeva il concetto che, a differenza dell’antico sacerdozio levitico, le cui prerogative consistevano tutte nell’esterno splendore delle vesti, il sacerdozio cristiano non ha vesti speciali. – Ci troviamo dunque in un periodo in cui non esiste ancora un tipo speciale di vesti ieratiche; ma, precisamente come in Roma ai principii del IV secolo, i sacri leviti nel ministero dell’altare e nel seppellire i Martiri si distinguono appena per il maggior candore dei loro pallii gittati sulla toga latina dal taglio comune degli altri cittadini. – Gli ornamenti invece del sacerdozio nostro, proclama alto l’anafora, sono le virtù, quelle appunto che simboleggiavano tipicamente gli ori e le gemme dell’antico efod pontificale. Siccome poi nei primi tre secoli, a preferenza dei presbiteri che solo presiedevano ai penosi esercizi dell’exomologesi dei penitenti, il ministro abituale dell’assoluzione sacramentale, come del battesimo e della prima comunione, era il vescovo, così nell’anafora di cui trattiamo si supplica Dio di consegnargli le chiavi del celeste regno, affinché leghi e sciolga in Cielo quello che colla sua sentenza avrà legato e sciolto in terra.

In quei primi tempi così agitati dalle eresie, a preferenza dei preti anche il ministero della predicazione era tanto proprio dei vescovi, che, non ostante il cattivo viso che san Girolamo faceva a questo estremo riserbo del potere pontificale, un tempo Roma ebbe a riguardare perfin con occhio diffidente la differente disciplina delle Chiese Gallicane, ove ai presbiteri era lecita la predicazione. Quindi nell’anafora consacratoria dei vescovi, esprimesi anche quest’ufficio di annunziare la parola di Dio, tanto importante e così proprio dei Pontefici, i quali appunto pel ministero dell’evangelizzazione venivano considerati come i successori degli Apostoli.

Tenuto quindi conto di tutte queste attribuzioni vescovili nei primi quattro secoli, poiché l’anafora consacratoria dei vescovi, giusta il Pontificale Romano, riflette precisamente quest’ordine d’idee e questa primitiva disciplina della Chiesa, la sua redazione non va riportata oltre il secolo V, ma piuttosto prima che dopo.

A lato dei brani più importanti del testo dell’odierno Pontificale, pongo le frasi parallele degli Statuti Apostolici e dei così detti Canoni d’Ippolito.

Pontif. Roman.

Huic famulo tuo quem ad summi sacertdotii ministerium elegisti, hanc, quaesumus, Domine, gratiam largiaris… ut tui Spiritus virtus et interiora eius repleat… Sint speciosi munere tuo pedes ad evangelizandum… Da ei… ministerium reconciliationis, in verbo, in factis, in virtute signorum et prodigiorum… Da ei, Domine, claves regni caelorum, … quodcumque ligaverit super terram, sit ligatum et in caelis, et quodcumque solverit super terram, sit solutum et in caelis. Quorum retinuerit peccata retenta sint, et quorum remiserit, tu remittas. Tribue ei, Domine, cathedram episcopalem, ad regendam ecclesiam tuam.

Statut. Apostol. latin.
Veron.

Da… super hunc servum tuum quem elegisti ad episcopatum, pascere gregem sanctam tuam, primatum sacerdotìi tibi eixihibere…

… habere potestatem dimittere peccata … solvere etiam omnem colligationem, secundum potestatem quam dedisti Apostolis.

Canon Hippolythi

… Ratione huius episcopi qui est magnus Abraham, … respice super servum tuum, tribuens virtutem tuam et spiritum… quem… tribuisti sanctis Apostolis… Tribue illi episcopatum…

et potestatem ad remittenda peccata, et tribue illi facultatem ad dissolvenda omnia vincula iniquitatis.

Nella formola consacratoria romana è notevole che l’autorità di rimettere i peccati sia posta direttamente in relazione colla podestà delle somme chiavi consegnate a Pietro; il che si verifica pel Pontefice romano, ma non è interamente esatto per gli altri vescovi. La quale osservazione c’induce a sospettare, che da principio l’anafora del Pontificale sia stata redatta per l’esclusiva consacrazione del Papa, e che solo in seguito sia stata adibita per quella degli altri vescovi suffraganei di Roma, i quali appunto dovevano ricevere la loro consacrazione di mano del Pontefice, in qualità di loro metropolitano.

L’ufficio dei presbiteri, giusta la disciplina ecclesiastica dei primi secoli, era quello di formare il consiglio del vescovo, e di sostituirlo nell’amministrazione dei Sacramenti, fatta eccezione di quelli che, per divina istituzione o per disciplina canonica, erano a lui riservati. Perciò, giusta il Pontificale Romano, nell’anafora consacratoria dei sacerdoti, il vescovo, ricordato dapprima che Mosè nel deserto era coadiuvato da un’assemblea di settanta anziani, e che Aaron giovavasi del ministero dei propri figli, e che infine anche agli Apostoli Gesù accordò l’aiuto dei dottori, supplica il Signore che nella persona dei nuovi candidati al sacerdozio conceda anche a lui consacrante degli aiuti ripieni dello spirito di ogni santità. In armonia colla posizione occupata in antico dai presbiteri che, pur formando il consesso sacerdotale attorno alla persona del vescovo, nelle circostanze ordinarie non avevano alcuna attribuzione particolarmente loro riservata, non battezzavano, non celebravano la messa, non assolvevano i penitenti se non in mancanza del vescovo e dietro sua speciale delegazione, nell’anafora del Pontificale Romano per l’ordinazione dei preti non si esprime alcun ufficio particolare loro distintamente attribuito; solo si prega in genere che il carisma sacerdotale li renda providi cooperatores ordinis nostri, appunto come avveniva in pratica, quando in quei primissimi tempi l’unico sacerdos e ministro dei sacramenti era il Pontefice, ed i preti, fatta eccezione del sacramento dell’Ordine Sacro, lo sostituivano solo là dove non poteva giungere l’attività di lui.

Il diacono nell’antichità era l’indivisibile compagno del vescovo; si può anzi dire che, se il collegio presbiterale rappresentava la sapienza della Chiesa e il fulcro dell’autorità episcopale, i diaconi però erano il suo braccio destro. Fu così che a Roma nel III secolo era invalso l’uso, che giammai i preti, ma sempre invece i diaconi succedessero al Pontefice defunto. A differenza dei preti, che col senno e colla podestà loro assistevano il vescovo nel regime spirituale della Chiesa e nell’amministrazione dei Sacramenti, l’ufficio dei diaconi, per quanto di maggiore responsabilità, era più umile. Nelle sinassi sacre i preti, appunto perché condividevano, sebbene in grado inferiore, il sacerdozio col Pontefice, si assidevano a lato a lui, talora concelebravano insieme, frangevano col medesimo il Pane Eucaristico, mentre l’atteggiamento caratteristico dei diaconi era quello di stare sempre in piedi, come chi attende ordini dall’alto, ed è destinato ai materiali uffici del sacro ministero. Quali? Non già semplicemente l’assistenza al vescovo quando egli predicava, celebrava i divini Misteri, o si recava ai Concili, ma soprattutto l’amministrazione del patrimonio ecclesiastico, dei cimiteri, la cura dei poveri, degli orfani, dei catecumeni, dei prigionieri gettati in prigione per la confessione del nome di Cristo, la corrispondenza della cancelleria episcopale, ecc.

L’anafora di consacrazione del diacono esprime perciò tutta l’importanza che la Chiesa annetteva all’ufficio dei suoi leviti. Le loro qualità morali debbono essere tali e tante, che il vescovo quasi esita a farsi mallevadore del loro merito presso i fedeli, e si appella perciò all’imperscrutabile giudizio di Dio, il quale solo può penetrare le coscienze dei candidati e risanare le piaghe che sfuggono all’occhio e alla cura umana. I diaconi, prega perciò il celebrante, siano l’esempio
fulgido d’ogni virtù, siano casti, costanti, modesti nell’autorità loro. Quest’ultima raccomandazione era particolarmente opportuna pei diaconi romani, che eccedevano talora nelle loro competenze, sì da costringere dei concili a porre un freno all’alterigia loro: De diaconibus Urbis, ut non sibi tantum praesumant.

Coll’aiuto dei vari Ordines Romani noi possiamo seguire passo passo tutto lo sviluppo del rituale delle sacre ordinazioni nell’Eterna Città. Da principio, una semplice oratio in forma d’anafora, accompagnata dall’imposizione delle mani episcopali, e che formava come una brevissima parentesi nel consueto ordine dell’offerta del divin
Sacrificio. Era questione di qualche minuto: ieiunantes et orantes, imposuerunt eis manus, perfettamente com’è descritta negli atti degli Apostoli l’ordinazione di Paolo e di Barnaba. Chiusa la parentesi, si continuava la messa dal punto in cui era stata sospesa, e l’Eucaristia poneva l’ultimo suggello ad ogni rito.

Nel medio evo il cerimoniale si complica. Viene la consegna ufficiale degli oraria deposti il dì innanzi sull’arca sepolcrale di san Pietro, la vestizione delle penule, le litanie, la cavalcata solenne dei nuovi preti e diaconi ai rispettivi titoli; ai quali riti descritti negli Ordines Romani del IX secolo, s’intrecciano più tardi le altre cerimonie gallicane delle unzioni e della consegna degli strumenti, simboli dell’Ordine ricevuto. Tutto quest’incrocio rituale lascia alquanto a desiderare dal punto di vista dell’estetica liturgica, la quale esige nel culto assoluto rigore teologico di formole, ordine, armonia e proporzione nelle parti. Nell’insieme, però, la fusione dei due cerimoniali romano e gallicano, a chi non guarda tanto per il sottile, è di effetto e piace. La Chiesa parla, e la parola sua, anche quando per sussulto straboccante d’affetti non procede con rigoroso ordine metodico, desta sempre una viva impressione, perché è la parola dello Spirito Santo, e verbo di Dio non è mai sterile, né si cancella.

Nella messa, più che delle sacre ordinazioni, domina il concetto della prossima venuta del Verbo incarnato. Forse originariamente nelle notti in cui si celebravano a Roma le sacre Vigilie, e a più forte ragione quando s’ordinavano i sacri Ministri, tutta la prima parte della liturgia eucaristica – la così detta Messa dei Catecumeni che vuol essere appunto una riduzione del primiero rito vigiliare – si ometteva, per incominciare subito colla presentazione delle oblate e coll’anafora consacratoria. Così appunto si costumava il pomeriggio del Giovedì Santo, dopo che la mattina s’erano riconciliati i penitenti ed era già preceduta la missa chrismalis. Ed è forse questa la ragione per cui oggi negli Ordines si dà tanta importanza al canto delle Benedictiones dopo la lezione di Daniele, giacché queste lodi dovevano appunto tenere il luogo della consueta dossologia mattutinale, l’Inno Angelico, disponendo immediatamente gli animi per l’anafora consacratoria. Comunque sia, ad intendere bene l’attuale testo del Messale, noi dobbiamo tener conto della successiva stratificazione di tutti questi riti. La loro attuale fusione risale indubbiamente ai tempi almeno di san Gregorio Magno.

Sappiamo infatti che fu proprio lui a raccorciare il primitivo rito vigiliare, che importava da principio la recita di dodici lezioni tanto in greco che in latino. Il santo Pontefice le ridusse della metà, ma, fuori dell’ambiente della Curia pontificia, tanta fu la forza dell’uso, che non solo rimase intatta l’antica denominazione di sabato delle XII lezioni già attribuita a questi sabati dei IV Tempi, ma in grazia del Gelasiano adottato in moltissimi luoghi in Francia e altrove, sopravvissero pure al naufragio le famose dodici lezioni della vigilia pasquale. Queste, bandite già da Roma per la porta; dopo quasi un secolo vi ritornarono per la finestra, giacché, soppresse nel Sacramentario Gregoriano, esse riacquistarono la cittadinanza per opera del Gelasiano, quando questo nel periodo franco si compenetrò nell’uso del clero col codice del primo Gregorio.

Cfr. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – II. L’inaugurazione del Regno Messianico (La Sacra Liturgia dall’Avvento alla Settuagesima), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 128-135.

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