ALLA TERZA MESSA DEL GIORNO DI NATALE Stazione a Santa Maria Maggiore (a San Pietro).

S. Maria Maggiore

Sino ai tempi di Gregorio VII la terza Stazione natalizia, come per solito a Roma nei dì più solenni, si raccoglieva a San Pietro, quasi per celebrare il Natale in famiglia, attorno alla mensa Petri, del comun Padre e Pastore. Ma la brevità delle giornate invernali, e la difficoltà di recarsi processionalmente in Vaticano in quei giorni torbidi, in cui il papa era stato perfino strappato dall’altare ad Praesepe nella messa natalizia di mezzanotte ed era stato trascinato prigione dalla fazione avversa, fece preferire la basilica Liberiana più prossima al Laterano, tanto più che nel secolo XI San Pietro fu parecchie volte in potere degli scismatici e dei loro antipapi. L’uso imposto allora dalla tristezza dei tempi finì col diventare legge, e la Stazione a Santa Maria Maggiore sostituì quella di San Pietro. Con questa differenza però, che la messa della mezzanotte è nell’oratorio ad Praesepe – dove poteva essere ammessa solo una cerchia ristretta di persone -, mentre la terza si celebra nella vasta aula di Sicnino, decorata da Liberio e da Sisto III.

Nell’entrare del pontefice in chiesa, descrivono gli antichi Ordini Romani, i cubicolari lo ricevevano sotto una specie di baldacchino, ed egli, con un cerino posto sulla sommità d’una canna, dava fuoco alla stoppa intrecciata sui capitelli delle colonne.

Questo rito che oggi compiesi solo in occasione della consacrazione del Sommo Pontefice, simboleggiava la gioia festiva, siccome ancora voleva essere quasi una figura finis mundi per ignem¹, ma questo secondo significato simbolico è posteriore. Nei tempi più recenti il senso primitivo ha subito una nuova modificazione, ed al Pontefice che in tutta la sua gloria s’appressa all’altare di San Pietro onde cingere la tiara pontificia, un cerimoniere, mostrando la stoppa ardente, dice: Pater Sancte, sic transit gloria mundi. La lezione è profonda, ma gli umanisti del rinascimento che l’introdussero, sembra che punto non comprendessero la sconvenienza di recitarla innanzi al sommo Maestro della Fede, nell’atto che prendeva possesso del trono pontificio.

Giunto il corteo sul presbiterio, il primicerio, togliendo la mitra al Papa, lo baciava sull’omero; questi a sua volta, baciato il codice dei Vangeli, scambiava l’amplesso col decano dei cardinali vescovi, e circondato dai suoi sette diaconi, dava principio all’azione liturgica.

Dopo la colletta, i chierici inferiori, sotto la direzione dell’arcidiacono, eseguivano una serie di acclamazioni litaniche – tuttavia in uso nella coronazione pontificia – in onore del Papa; il quale li ricompensava di quel complimento con tre soldi d’argento per ciascuno. All’offertorio salivano all’altare altri sette tra vescovi e preti cardinali, e concelebravano con lui – il qual rito di concelebrazione eucaristica si mantenne assai a lungo a Roma nella messa solenne papale.

Terminato il divin Sacrificio, il Pontefice veniva incoronato col regnum dall’arcidiacono – la seconda e la terza corona sono state aggiunte nel periodo avignonese – e lo splendido corteo a cavallo faceva ritorno al Laterano per il pranzo. Prima di discender di sella, i cardinali si schieravano innanzi alla piccola basilica di Zaccaria, e – come il Polichronion della corte bizantina nella festa di Natale – l’arciprete di san Lorenzo intonava esso pure: Summo et egregio ac ter beatissimo papae N. vita. Rispondevano i colleghi tre volte: Deus conservet eum. Ripigliava l’altro: Salvator mundi, o Sancta Maria, omnes Sancti e ad ogni invocazione il coro rispondeva: tu illum adiuva. Il Papa ringraziava dell’augurio, e distribuiva a ciascuno dei cardinali tre monete d’argento. Sottentravano allora i giudici, ed il primicerio intonava: Hunc diem; gli altri acclamavano ripetutamente: Multos annos. Riprendeva il capo: Tempora bona habeas, ed il coro: tempora bona habeamus omnes.

Allora finalmente il Papa scendeva da cavallo, ed entrato in una delle sale, continuando l’antica tradizione dei Cesari, faceva ai suoi clienti le consuete distribuzioni di danaro. – È sommamente interessante vedere come la corte pontificia del medio evo abbia conservate tante tradizioni del periodo imperiale di Roma e di Bisanzio. – Oltre la buona mano comune a tutti, al prefetto della città spettavano venti monete, quattro ai giudici e ai vescovi, tre ai preti e diaconi cardinali, due ai chierici inferiori e ai cantori. Lieti tutti per l’elargizione ottenuta, prendevano posto a mensa imbandita nel gran triclinio di Leone III, il cui mosaico absidale esiste tuttavia sulla piazza lateranense, in una ricostruzione posteriore compiuta sotto Benedetto XIV.

Intorno al Papa sedevano a mensa in abiti sacri, a destra i cardinali vescovi e preti, a sinistra l’arcidiacono, il primicerio cogli alti ufficiali di corte. Nel mezzo dell’aula era il leggio coll’omiliario, donde a metà del banchetto un diacono leggeva un tratto dei Santi Padri. Ma la lettura non durava a lungo: il Pontefice mandava un accolito ad invitare la schola, perché eseguisse qualche sequenza del suo repertorio in onore del Natale – ecco il posto riservato alla sequenza, siccome canto devoto e popolare, ma estra-liturgico, in Roma -, e dopo che i cantori avevano dato prova della loro valentia musicale, erano ammessi a baciare il piede al Papa, il quale bonariamente offriva a ciascuno una coppa di vino ed un bisante. Quanta poesia in queste antiche cerimonie della Roma papale, e soprattutto quale influsso esercitava la sacra liturgia sopra tutta la vita religiosa del popolo!

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¹ Ord. Bened. CanoniciP. L., LXXVIII, col. 1032.

Cfr. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – II. L’inaugurazione del Regno Messianico (La Sacra Liturgia dall’Avvento alla Settuagesima), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 164-166.

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