Carlo Fabrizio Carli, Musica e architettura

La nostra cultura è largamente influenzata da un razionalismo illuministico che inesorabilmente ci separa e ci allontana dalla possibilità di comprendere manifestazioni culturali, fondate su presupposti differenti dagli odierni, frutto di una cultura tradizionalmente orientata che pure è parte integrante ed essenziale del nostro essere attuale.

Siamo così divenuti quasi incapaci di scorgere e decifrare il messaggio profondo contenuto e celato, sotto forma di simboli, in tante opere del passato. Tutto ciò è mostrato nel breve ma denso articolo che qui si presenta – ripreso dal Bollettino Ceciliano, 1, gennaio 1977 – in cui C. F. Carli ripercorre le tappe fondamentali che hanno permesso al musicologo M. Schneider di interpretare il significato della decorazione architettonica di alcuni chiostri catalani del XII sec. e, al di là di questa scoperta che pure ha per noi dello stupefacente, di illuminare il rapporto profondo che collegava in armonica unità architettura, musica e parola nell’opera di artisti che, con scienza antica, sapevano letteralmente far parlare e cantare le pietre.

* * *

La musica si svolge nel tempo, l’architettura occupa lo spazio; l’una è affidata all’entità immateriale dell’onda sonora, l’altra è fondata sulla saldezza tangibile e tetragona della pietra; una vive la sua vita effimera e sempre rinnovellata, incapace a sostenere il più esiguo impaccio della materialità, l’altra sfida lo scorrere di secoli e millenni con le vestigia più imponenti e durature che l’uomo imprima nel cammino della sua storia.

Tanti e così marcati elementi di diversità, da far sospettare tra musica e architettura divorzio e lontananza irrevocabili, eppure, pur che di tali aporie si sappia superare il primo impatto superficiale, – come venne indagato e messo in luce fin da una remota antichità – tali da non escludere analogie e relazioni oltremodo significative, riassunte nella celeberrima espressione del teorico del neoclassicismo, Johann Joachim Winckelmann, che scorgeva nell’architettura, e più esattamente nell’architettura greca, della «musica pietrificata» o «congelata».

C’è innanzitutto un comune supporto numerico, una comune matematica capacità ordinatrice che non sfuggì certo ai Pitagorici che, tuttavia, non ci trasmisero la chiave di decifrazione del segreto; c’è soprattutto il comune denominatore comune dell’afiguratività che sottrae entrambe le arti al rischio della figurazione naturalistica che soffoca nel sostanziale materialismo della rappresentazione veristica la pregnanza metafisica del simbolo1.

E viene spontaneo ricordare come, agli inizi del secolo, quando i padri dell’astrattismo, Wassili Kandinsky, Malevic, Mondrian, si impegnarono nel proposito, condotto con indubbia sincerità e coraggio che non escludevano certamente incompletezza ed incoerenza, di liberare il panorama artistico dell’eredità paralizzante del naturalismo ottocentesco – ed erano quei pionieri non soltanto remotissimi dalle facili truffe degli innumerevoli epigoni, ma davvero ispirati da un anelito religioso alla purezza, come ha dimostrato Carlo Belli in quel suo precorritore ed ancor oggi fondamentale saggio «Kn» – essi non si stancavano di chiamare in soccorso dei loro tentativi rivoluzionari e «scandalosi» la comune natura della musica e dell’architettura, quale prova e testimonianza di un’espressione artistica capace di mantenersi indipendente dal panorama fenomenico ma che invece attingesse alla realtà interiore. Come anche è tutt’altro che un caso che quei pittori trovassero una prima comprensione e difesa presso i giovani architetti e musicisti, anch’essi volti alla ricerca nel nuovo di un’antica purezza.

Le analogie e le relazioni proseguono.

«Ricerche matematiche hanno dimostrato che gli intervalli della gamma dorica trovano un corrispettivo nelle facciate di certi templi antichi. La scuola di Pitagora stabiliva rapporti diretti fra le proporzioni spaziali 2:1, 3:2, 4:3 ecc. e l’ottava, la quinta, la quarta»2.

A Marius Schneider fa eco Attilio Mordini: « … tutte le arti partecipano all’architettura anche quale unificazione dell’utile con il bello. All’architettura della Cattedrale o del tempio tutte le arti meccaniche e liberali partecipano appieno … , la musica non solo per le leggi acustiche alle quali il tempio deve ottemperare, bensì anche per il ritmo stesso delle masse e delle modulazioni.. Per quanto concerne l’ispirazione, i miti tradizionali uniscono l’architettura e la mu­sica in una vera e propria affinità di origini sacre… Al suono della lira vennero edificate, sempre secondo la Tradizione classica, le mura di Tebe per opera di Anfione discendente di Giove, e a lui si ispirano gli aedi greci e gli aediles dell’antica Roma. L’ordinarsi delle corde e delle pietre all’armonia dello strumento e dell’edificio è figura della restaurazione interiore del Jus operante nell’edificazione e nella fondazione della città … »3.

Inoltre lo Schneider ha dimostrato, con ampio ricorso al patrimonio mitico tradizionale occidentale ed orientale e persino alle cosmogonie africane, come la musica e la pietra costituiscano una coppia simbolica4.

Ed è stato sempre lo Schneider, con la fortunata indagine su alcuni chiostri romanici catalani5, a porre il crisma culminante e, si vuoi dire, fuori da ogni re­torica, emozionante, al quadro delle relazioni tra musica e architettura.

Esaminando le figure animalesche scolpite sui capitelli dei chiostri, entrambi benedettini ed entrambi risalenti al XII secolo, di San Cugat (un piccolo centro vicino Barcellona) e di Gerona, lo studioso fu subito colpito dalla non casualità di tali immagini: «posto di volta in volta occupato da ogni singolo capitello nella successione delle colonne dei chiostri benedettini qui esaminati non è mai casuale, ma è sempre determinato da un ritmo globale musicale o ideologico. Né «fantasia sfrenata» né «arbitrio artistico» disposero a piacere nello spazio teste e figure di santi, animali ed esseri fantastici, ornamentazione vegetale e scene mitologiche o bibliche, ma una severa e consapevole volontà ordinatrice suddivise ingegnosamente le superfici secondo un piano ben congegnato … Con quale diritto sarebbe lecito supporre che nel convento benedettino, dove la vita ad ogni ora del giorno e della notte era subordinata ad una ben precisa simbologia rituale (elaborata in ogni minimo particolare), sorgesse all’improvviso un chiostro che il costruttore avrebbe progettato senza pensare «assolutamente a niente» o lasciandosi guidare da motivi puramente decorativi o formalistici?»6.

Servendosi delle rispondenze tra note musicali ed animali offerte dalla tradizione indiana ed applicandole a quei chiostri spagnoli, e basandosi, in tale operazione, non soltanto sui risultati ormai saldamente acquisiti dei rapporti tra l’arte indiana e quella europea medievale, ma anche sulle analoghe corrispondenze che il celebre gesuita Atanasio Kircher aveva raccolto nella sua «Musurgia universalis» da fonti inequivocabilmente occidentali quali Proclo ed Edipo Egizio, l’illustre etnomusicologo tedesco poté giungere ad un risultato sorprendente: ecco, i capitelli si rivelavano coperti di suoni rituali, divenivano pietre sonore, si facevano, insomma, essi stessi – certamente a chi ne avesse trovato la chiave del segreto architettonico udibili.

Ora, «che l’idea di riprodurre plasticamente fenomeni musicali esistesse anche nel Medioevo europeo, è dimostrato dalla rappresentazione delle tonalità sui capitelli di Cluny. Qui tuttavia le figure umane, i danzatori e gli strumentisti che servivano da simboli musicali, furono espressamente dotate di scritte che ne indicavano di volta in volta la tonalità»7.

La quale è già una notizia non poco sorprendente per la mentalità estetica moderna che ci ha abituati ad un’arte che ha escluso il suono al punto che oggi riesce difficile pensare, nota lo Schneider, recando un esempio suggestivo, che i doccioni gotici assumevano pienamente la loro vita solo quando scrosciava la pioggia e i mostri di pietra barrivano, ululavano, cantavano insomma, sputando quell’acqua di vita: non c’è dubbio: per riac­quistare interamente, immediatamente il senso di questi significati sarebbe neces­sario reintegrare la capacità simultanea, e un tempo istintiva, di udito e di vista che gli antichi cinesi chiamavano «hic degli orecchi».

Ma a San Cugat e a Gerona la sorpresa si spinge oltre Cluny, qui: «gli animali non sono una nota musicale, essi rappresentano una materializzazione del suono. L’immagine dell’animale non è un segno del suono, ma un equivalente materiale della nota»8.

La trasposizione tonale dei simboli animaleschi (Leone = fa, aquila = do, pavone= re, etc.; ma senza alcun automatismo meccanico cosicché il leone stanco o sconfitto non emetterà più il fa, nota di vittoria e di affermazione, ma il mi, suono inferiore di un intervallo di semitono, nota di mitezza e di pietà), fornisce la medodia dell’inno a San Cacufane, il santo a cui è dedicata la chiesa di San Cugat, secondo l’Antifonario Romano, e la cattedrale di Gerona, dedicata alla Madre di Dio, restituisce l’inno alla «Mater Dolorosa» (Festa septembris 15).

Figura dopo figura, capitello dopo capitello, il giro del chiostro corrisponde allo svolgersi dell’inno sacro: la melodia è ridotta in pietra e la pietra può scio­gliersi nel canto che vi è stato imprigionato.

Il quale non è soltanto un criterio metodologico rivoluzionario per accostarsi all’architettura medievale e neppure soltanto «la prova sperimentale della presenza di scienze sacre simboliche universali nel Medioevo cristiano»9, ma una lezione ed un invito di profondissimo significato, che «tutto, scultura, architettura, musica, mirava a un solo fine: che l’uomo armonizzasse con il cosmo»10 e con la sua Volontà ordinatrice: tensione all’armonia cosmica che, come ci insegna­no i mistici e i santi, è continua e sublime preghiera.

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1 Si vedano i volumi di Paul Evdokìmov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, ed. Paoline, 1969, pagg. 131 e segg., e La teologia della bellezza, ed. Paoline, 1971.
2 Marius Schneider, «La coppia simbolica musica e pietra», in Conoscenza Religiosa, 1971, n. 3, pag. 201.
3 Attilio Mordini, Verità del linguaggio, ed. Volpe, 1974, pagg. 232-233.
4 Marius Schneider, cit.
5 Marius Schneider, Pietre che cantano. Studi sul ritmo di tre chiostri catalani di stile romanico, ed. Arché, 1976.
6 Marius Schneider, op. cit., pag. 2.
7 Marius Schneider, op. cit., pag. 18.
8 Marius Schneider, op. cit., pag. 31.
9 Elémire Zolla, introduzione a Marius Schneider Il significato della musica, ed. Rusconi, 1970, pag. 13.
10 Elémire Zolla, «Ascoltare la musica scolpita nella pietra», in Il Corriere della Sera, 23-8-1976.

Cfr. «Una Voce Notiziario», 40-41, 1977, pp. 12-14.

Sulle melodie liturgiche nei chiostri di San Cugat e di Gerona vedi ora DIAKOSMESIS

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