Neri Capponi, Il “punto d’innesto” e la Liturgia

Facendo riferimento all’editoriale «Per una riforma della Liturgia», a suo tempo pubblicato nel bollettino nazionale di Una Voce1, e alla prospettiva in esso affacciata di una «riforma delle riforme li­turgiche», vorrei aggiungere le seguenti osservazioni.

E’ da mettere in chiaro innanzi tutto che un’eventuale «riforma delle rifor­me» dovrà restituire ai testi del messa­le, del rituale e del pontificale nonché al modo di celebrare la messa e di ammini­strare i sacramenti quella pienezza e chia­rezza teologica che oggi è spesso caren­te. La riforma, infatti, fu basata sia sulla manìa archeologica per i riti dei primi secoli, prima, cioè, che in Occidente fos­sero arricchiti da elementi germanici e celtici nonché dal successivo approfondimento del dogma, sia su di un falso ecu­menismo il quale tende a raggiungere una «unione» a tutti i costi col mondo pro­testante: ne è risultato, pertanto, un rito povero, spesso equivoco, ed un modo di celebrarlo che si ispira alla Riforma.

Poche furono le concessioni al mondo orientale, se non nella speciale, precisa invocazione allo Spirito Santo introdotta nei nuovi canoni e, forse, nell’uso di ricevere la comunione in piedi. La questio­ne della lingua liturgica fu risolta, in ap­parenza, sia accostandosi alla tradizione orientale sia a quella protestante, poiché ambedue privilegiano l’uso delle lingue nazionali. A ben vedere, però, è stato lo spirito protestante a prevalere poiché in Oriente non è la lingua nazionale parlata che viene privilegiata nella liturgia ma la lingua nazionale nella sua forma arcaica od aulica intesa come lingua sacra: nella riforma liturgica invece il problema della lingua: è stato visto nell’ottica individua­listica, antisacrale e livellatrice del prote­stantesimo, ispirandosi inoltre al dogma illuminista [13|14] della necessità della compren­sione razionale di tutte le cose, persino di quelle che di per sé superano la ragio­ne ma che se non rientrano in categorie razionali, limitative e pedisseque, per lo spirito illuminista neanche esistono!

Ciò detto non penso che la riforma po­trà consistere in un ritorno puro e semplice alla liturgia cosiddetta «tridentina», che per ragioni religioso-culturali è bene che rimanga così come è con piena cit­tadinanza accanto agli altri riti della Chie­sa Cattolica, ma dovrà, sulla base, anzi­tutto, di un completo e corretto messag­gio teologico, tenere conto di alcuni dati scritturistici, storici e teologici.

Va anzitutto considerato il dato stori­co-teologico che proviene dalla lettera ai Romani di San Paolo (Romani 11, 16-27) ove l’Apostolo parla dell’innesto sul vec­chio tronco dell’ebraismo dell’olivastro dei gentili, il quale continuerà a fiorire fino alla fine dei tempi quando (essendosi seccato l’albero innestato a causa della grande apostasia di cui parla Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi, 2, 3) verrà reinnestato sul tronco il vecchio al­bero d’Israele rinverdito per la sua con­versione, come nazione, al Cristianesimo: dalla conversione di Israele conseguirà, poi, la riconversione dei gentili.

Da questo dato biblico si rileva l’im­portanza del «punto d’innesto» finché dura l’adesione dei gentili al Cristianesi­mo, «punto d’innesto» che storicamente si identifica con la civiltà greco-latina, cioè col mondo romano. Consegue da ciò l’im­portanza che la tradizione romana (iden­tificata con la tradizione greco-latina) ha per il Cristianesimo incarnatosi nel mon­do, almeno finché durerà l’adesione dei gentili. In campo liturgico il «punto di innesto» si identifica con i riti cristiani sorti durante i primi secoli, nella parte occidentale dell’impero, sul fondamento della latinità influenzata dalla tradizione greca e nella parte orientale sull’ellenismo a sua volta permeato di elementi latini.

Con le cosiddette invasioni barbariche sorge in Occidente una nuova civiltà romano-germanica con forti apporti dal mondo celtico la quale costituisce la base prossima della cosiddetta civiltà occiden­tale, oggi comprendente l’Europa occidentale, Americhe, il Sud-Africa, l’Au­stralia e la Nuova Zelanda. Tornando alla liturgia si può dire, ad esempio, che la messa cosiddetta «tridentina» è non solo il frutto dell’approfondimento del dogma in materia di presenza reale, di sacrificio propiziatorio e di sacerdozio mi­nisteriale, ma anche il più bel frutto cul­turale della tradizione romano-germanica­ celtica, frutto venuto ad iniziale matura­zione per opera di Alcuino e poi degli Ot­toni, fra il nono e l’undicesimo secolo, e successivamente sviluppatosi attraverso il basso Medioevo fino a Pio V che lo cristallizzò definitivamente: con questa messa e con tutti i riti occidentali è inti­mamente connessa la lingua latina come lingua sacra della liturgia romano-germa­nica od occidentale.

Se per l’Occidente, in nome non solo della sua continuità culturale, la «rifor­ma delle riforme» non dovrà troppo di­scostarsi dal modello «tridentino», ov­verosia dalla liturgia precedente il 1965, e la lingua dovrà essere, almeno prevalentemente e in linea di principio quella la­tina (o comunque, in via subordinata, una lingua nazionale in versione aulica e per­ciò culturalmente valida), altro discorso deve farsi per le antiche civiltà dell’Asia e del Nord Africa nonché per l’Africa ne­ra, la Papuasia e l’Oceania ove, salvo il «punto d’innesto» dei gentili (cioè, in campo liturgico, i riti sorti nei primi se­coli nell’ambito dell’impero romano), lo ulteriore innesto dovrà farsi, nel rispetto della tradizione teologica, con le singole tradizioni o culture: eliminando perciò [14|15] completamente gli apporti germano-celti­ci nella liturgia i quali sono peculiari alla civiltà occidentale e non sono diretta­mente connessi col «punto d’innesto» dei gentili sull’albero dell’ebraismo. L’appor­to delle singole tradizioni pagane potrà riflettersi nei colori liturgici, nella musi­ca sacra, nei gesti, nei segni, nel calen­dario, nei riti aggiuntivi, nonché nella lingua che dovrà essere quella sacra del­le singole civiltà o culture: l’unico punto fermo, ciò che nasce dall’antichità greco-romana e dalla radice ebraica ridotto al­l’essenziale.

Si avrà allora un fenomeno simile a quello avvenuto in Occidente fra i se­coli nono ed undecimo ed in Oriente con le influenze semitiche, persiane, ar­mene ed infine slave sulla originaria li­turgia del mondo ellenistico-romano, e ciò su scala mondiale. Già i gesuiti del XVII secolo lo intuirono proponendo i cosiddetti riti cinesi, ma forse una delle ragioni del fallimento di quella iniziativa missionaria fu dovuto al fatto che i suoi autori la vedevano in un’ottica puramente pragmatica senza approfondirne i ri­svolti storico-biblici e senza la conoscenza che abbiamo oggi della storia della li­turgia.

Stiamo oggi assistendo ad un tentativo assai simile a quello dei gesuiti seicenteschi; tentativo però attuato sulla base di riti dogmaticamente carenti e senza che ci sia alcun discernimento su ciò che nel­le singole tradizioni pagane è compatibi­le o incompatibile con il messaggio cri­stiano: in altre parole si sta assistendo ad un processo di inculturazione selvaggia della liturgia che è estremamente perico­loso e che potrebbe essere evitato se alla base di tutto figurasse una saggia «rifor­ma delle riforme», una conoscenza teo­logica, una coscienza storica, nonché una genuina e profonda conoscenza delle sin­gole tradizioni pagane.

Neri Capponi

Firenze, 6 febbraio 1988, festa di San Paolo Miki e Compagni, primi martiri giapponesi.

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1 Cfr. Una Voce – Notiziario n. 79-80, gennaio-giugno 1987, pp. 1-3.

Cfr. «Una Voce Notiziario», 83-84, 1988, pp. 13-15.

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